Partiamo da casa con il brutto tempo, quelle mattine uggiose che
vogliono farti rimpiangere le coperte. Purtroppo per lui (il maltempo),
io sono un testardo e con spirito positivo vado lo stesso, consapevole
del fatto che il peggio che possa capitare è di concludere
l’escursione in una piola prima ancora di cominciarla o di trasformare
la camminata in un raid automobilistico lungo le strade di montagna,
assaporando a bassa velocità il misterioso e intimo sapore
della strada immersa nelle nubi, del bosco appena immaginato, dei
prati che svaniscono nel nulla.
Come previsto, arriviamo al rifugio immersi in una nebbia fitta,
con un cielo grigio e scuro che fa presagire una massa nuvolosa
piuttosto consistente; tuttavia considero che la Cristalliera è
una cima elevata e potrebbe “forare” le nubi, in quel caso lo spettacolo
sarebbe ancora più emozionante di quello che si può
godere in una giornata limpida. Forse Lino non ha mai sperimentato
il “mare di nubi” da una vetta…
Comunque siamo venuti fino a qui, tanto vale provarci.
Non ho mai salito la Cristalliera da questo versante e il sentiero
non è di facile individuazione perché la visibilità
si riduce a pochi metri; decido quindi di accodarmi al folto gruppetto
di escursionisti che sta lasciando il parcheggio alla volta della
nostra stessa cima, sfruttando il vantaggio di non dover individuare
il sentiero nella nebbia. Questo risale un versante ripido zigzagando
fino ad una spalla dove si biforca, appoggiandosi un poco: io seguo
fedelmente le calcagna delle mie guide occasionali, con le quali
ho anche avuto modo di attaccare bottone.
E’ strano il modo in cui ci si rapporta agli altri in montagna,
lo definirei terapeutico: ci si trova tra perfetti sconosciuti come
in ascensore o in coda alla cassa del supermercato, eppure ci si
saluta istintivamente e senza sforzo si inizia a chiacchierare come
se ci si conoscesse da tempo; si condivide spontaneamente cibo e
bevande, ci si aiuta volentieri nei tratti difficili e si dà
conforto a chi soffre la fatica … il tutto senza essersi mai visti
prima, coscienti del fatto che probabilmente non ci si rivedrà
mai più
Il sentiero principale, dicevo, va a destra in piano, ma la variante
continua a salire per un tratto prima di tagliare a mezza costa
in direzione del lontano rumore che si rivela, dopo alcuni saliscendi
provenire da una cascatella; la risaliamo per un canalino affrontando
qualche passo esposto con la chiara percezione di trovarci a perpendicolo
sui ripidi pendii sottostanti.
Raggiungiamo una conca dominata da un laghetto, di cui vedo solo
la sponda più prossima a noi, guardando in alto però
comincio a vedere i segnali che aspettavo: il cielo si fa a tratti
più chiaro, segno inequivocabile che tra poco saremo fuori
dalle nubi. Questo ci dà nuova energia per affrontare il
resto dell’ascensione, anche perché il pianoro termina presto
e si trasforma in un pendio sempre più ripido e roccioso
che si appoggerà solo nei pressi del colle.
Giunti qui con una buona dose di fiatone ci fermiamo un poco ad
ammirare gli enormi massi di serpentino rosso accatastati l’uno
sull’altro e gli alti torrioni rocciosi che si intravedono a destra
nella nebbia che si dirada sempre più.
Il chiarore mi dà ormai la certezza che la punta “buca” le
nubi, ma non voglio indugiare troppo, perché l’ora è
tarda e di solito le nubi si elevano con il calore: ci avviamo dunque
per l’ultimo strappo per non rischiare di arrivare in cima e non
vedere più nulla.
Per sicurezza chiedo ancora una volta la strada, che si rivela non
essere quella più intuitiva e diretta, ma una traccia di
ometti di pietre che conduce in diagonale ad agganciare il sentiero
ripidissimo che sale dall’altra parte del colle. Ci troviamo in
un canalone di sfasciumi in cui è tanto facile quanto pericoloso
smuovere pietre, la presenza di numerosi escursionisti in fila come
processionarie proprio sotto i nostri piedi ci impone la massima
cautela nel poggiare i piedi e caricare il peso; do uno dei miei
bastoncini a Lino perché lo aiuti a mantenere l’equilibrio
ben saldo e proseguiamo lentamente verso le ultime rocce, arrivando
ben presto nei pressi della cima .
Qui le nubi si aprono a tratti rivelando già la vetta del
Malanotte ed il “mare” di nubi che lo circonda; appena sbucato sulla
cresta scatto una fotografia, prima di poggiare piede sul piano:
voglio documentare questa emozione in diretta, così come
l’ho vissuta, anzi prima di viverla personalmente.
Sulla cima non c’è vento, fa quasi caldo e la vista è
impagabile, resa ancora più suggestiva dal mare di nubi che
lascia solo le cime più alte a delimitare lo spazio che ci
circonda.
La croce è piuttosto alta e proprio mentre vi passo davanti
un “esperto” sta indicando ai suoi compagni tutti i monti circostanti;
approfitto in silenzio di questa inaspettata lezione di geografia
e scopro nomi di montagne che da qui hanno un aspetto irriconoscibile.
Sono felice, e anche Lino lo è, ci sediamo e mangiamo qualcosa…
Mi stupisce e mi affascina pensare alla fatica che si paga per
restare un’ora tra le braccia di Dio, di quanto questo tempo sia
dilatato, faticoso e rigenerante insieme .
Quando sono quassù penso alla Grande Illusione che manovra
le vite duemila metri più in basso: l’importanza personale,
la posizione sociale, l’ambizione, sono caratteri di un essere insicuro
e impaurito che non avendo alcun potere sulla Morte si consola cercando
di avere potere assoluto sulla vita.
Da quassù invece, si sperimentano fugaci ed intensi contatti
con l’Assoluto e si ricava una nuova (ma in realtà arcana)
prospettiva nella quale non c’è più spazio per le
cose frivole: la nostra corsa incontro alla morte è una cosa
davvero priva di importanza se confrontata con la vastità
del meccanismo cosmico, la minima parte del quale è intuibile
da questa cima.
Oggi su questa vetta ho ricevuto in dono un pensiero che ho tradotto
in questa poesia:
IN VETTA
Quanta fatica per guarirsi il Cuore,
Quanti passi, quanti respiri.
Da quassù non vedo confini, né trincee, né
bandiere.
E gli uomini son piccola cosa.
Da quassù vedo un’Unica, Saggia Madre,
E gli uomini son tutti figli, non padroni.
Dopo un po’ di paradiso ci rendiamo nuovamente conto di appartenere
al mondo e i pensieri ricominciano a scorrere ordinatamente come
vagoncini sulle rotaie: gli impegni per cena, la discesa, il rientro,
il traffico… dobbiamo andare.
Iniziamo la faticosa discesa lentamente, assaporando bene fino
in fondo questi passi, perché è difficile lasciare
questi luoghi così alieni e meravigliosi che sono le cime;
se potessi farei i capricci.
Incontriamo un escursionista, (o meglio, un merendero d’alta quota)
in difficoltà, a cui cedo uno dei miei bastoncini perché
ha male a un ginocchio e i suoi passi non sono affatto stabili.
E’ vestito con jeans, camicia e giubbotto di jeans e ai piedi ha
delle scarpe tipo Timberland…
Sono costretto a riflettere su chi dei due sia più stupido:
lui che ha raggiunto senza problemi la vetta senza armamentari e
precauzioni o io che ogni volta mi carico il necessario per il soccorso,
per l’orientamento, per la fame, per il freddo e per la pioggia
per giungere nello stesso luogo con il doppio della fatica !
Certo è che chi va in montagna così come si trova,
si affida completamente alla buona sorte e questa non è mai
garantita: talvolta gli eventi imprevisti ma prevedibili selezionano
separando crudelmente chi è preparato da chi non lo è.
Comunque trovo che si debba avere rispetto per il luogo che si sta
attraversando e dedicargli il tributo che merita anche attraverso
il riconoscimento della sua potenziale pericolosità.
Questi pensieri mi accompagnano fino al lago, dove la nebbia è
quasi svanita e la scena è degna di una cartolina. Sulla
parete Ovest della Cristalliera c’è qualcuno che arrampica
ed altri che salgono all’attacco di qualche via, mentre dalla parte
opposta, al di là della piccola conca, il nulla, il vuoto
la fa da padrone nella nebbia abbagliante che delimita il pianoro
su cui ci troviamo.
Ridiscendiamo il canalino della cascata e in breve siamo di nuovo
immersi nel grigiore cupo che ci aveva salutato stamane; alla spalla
dove si trova il grande ometto di pietre ho i baffi imperlati d’acqua
per l’umidità, di quelle nebbie grasse e pesanti che cadono
come la neve e inzuppano come l’acqua.
Arrivati al torrente è di nuovo semibuio e la visibilità
è di pochi metri, raggiungiamo con soddisfazione l’auto e,
avviati ormai verso casa, riavvolgiamo il nastro della memoria ripercorrendo
i momenti più belli della giornata, in silenzio, ciascuno
dal proprio monitor.
Renato Fassino (Elfo nero)
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